Kouassi Pli Adama Mamadou, per gli amici «Mama», è nato il 10 ottobre del 1983 a Dame, in un villaggio a est della Costa d’Avorio. Nel 2005 ha lasciato il suo Paese per raggiungere l’Italia, dove vive dal 2008. Oggi lavora come mediatore interculturale e offre aiuto a chi, come lui, è arrivato da lontano in cerca di un futuro. Ed è proprio perché dalla disperazione è riuscito a ripartire che Mamadou ha scelto di restituire l’aiuto che qualcuno gli ha offerto. I suoi occhi, da dietro lo schermo di un Pc, raccontano storie incredibili già senza parlare.
Com’è iniziato il viaggio per l’Italia?
«Su un gommone insieme ad altre 69 persone dalla Libia, dove ho vissuto per tre anni lavorando come muratore, mestiere che ho imparato lì. In Costa D’avorio ero uno studente di lingue all’Università di Cocody (Abidjan)».
Che cosa ha studiato di preciso?
«Francese, inglese e tedesco fino al 2001, poi una guerra civile ha colpito il mio Paese. Molti sono dovuti fuggire verso il Ghana, e anche io mi sono rifugiato lì nel 2005 insieme alla mia famiglia».
Che cos’è successo poi?
«Io e mio cugino abbiamo deciso di partire per la Libia insieme a un gruppo di ghanesi. Non potevamo tornare in Costa D’Avorio perché c’erano i ribelli. Abbiamo dovuto lasciare il nostro Paese senza avvisare i genitori: da un giorno all’altro ho abbandonato la mia famiglia, gli amici e anche gli studi a cui tenevo molto. E poi una grande passione…».
Quale?
«Ero il capitano della squadra di calcio del mio villaggio. Giocavo anche nella Liga serie B ghanese, nella Aduana Football in Nkrakwanta, a 30 chilometri da casa mia».
A proposito di casa, i suoi genitori che cosa fanno?
«Sono contadini, hanno piantagioni di cacao e caffè. Ho lavorato per molti anni con loro: ogni giorno, finita la scuola, li raggiungevo in campagna».
Del viaggio verso la speranza Mamadou ricorda soprattutto la traversata del deserto: tre settimane per arrivare in Libia, partendo dal Ghana nel 2005, e attraverso il Burkina Faso è poi arrivato nel Niger, dove è rimasto per altre due settimane. Da qui l’orrore ha assunto sembianze più concrete.
«Ho bevuto la mia urina per sopravvivere, ho visto donne violentate per pagare gli autisti e uomini picchiati a morte se rifiutavano di dare soldi. Quando sono arrivato in Libia ho lavorato nell’edilizia: ho dormito per mesi nelle case abbandonate o in costruzione, dove banditi e polizia venivano a rubarci i pochi soldi che avevamo messo da parte o i telefonini».
Che cos’è successo dopo?
«Nel 2008 sono stato catturato dalla polizia e sono rimasto in prigione per 40 giorni: mi hanno maltrattato fino alle botte, ma mio cugino ha poi pagato 400 dollari per la mia liberazione. Ho capito che la Libia non era un posto sicuro e mi sono preso il rischio di affrontare il viaggio in mare».
Che cosa l’ha portata a mettere in gioco la vita un’altra volta?
«Dopo tutto questo calvario mi era rimasto solo il sogno di arrivare in Europa, a costo di qualunque cosa. Sognavo semplicemente una vita migliore. Così, tramite un intermediario ho conosciuto un libico: ho pagato ma l’intermediario ghanese è scappato con i soldi e sono dovuto tornare a Tripoli e lavorare ancora per poter ritentare».
È stata la volta buona?
«Sì. Mi sono imbarcato per l’Italia il 7 novembre 2008. Ma dopo tre notti e tre giorni in mare il gommone si è spaccato in due: una donna con il suo bimbo e un altro uomo sono affogati, stavamo così stretti ed eravamo così stanchi che non abbiamo potuto aiutarli. È stato tragico».
E poi?
«Stavamo aspettando il nostro turno per morire, quando all’improvviso dei pescatori ci hanno visti e hanno chiamato la Guarda Costiera di Lampedusa. Due ore dopo ci hanno salvati e alla fine siamo sbarcati in 66».
La prima cosa che ha pensato?
«Sono salvo e sono in Europa».
Dopo sono intervenuti i servizi sociali?
«Da Lampedusa sono stato trasferito in un centro di accoglienza a Roma. Come succede spesso, la mia domanda di asilo è stata respinta e mi sono ritrovato a dormire per strada, a Tor Vergata. Un amico mi ha poi proposto di andare a Napoli, così a ottobre 2009 ho accettato e mi sono ritrovato a Castel Volturno».
È in questo periodo che Mamadou incontra l’attivismo. Il 10 ottobre 2009 partecipa alla prima manifestazione organizzata dal Movimento dei Migranti e Rifugiati di Caserta: con loro rimane per tre giorni nelle strade di Roma a chiedere l’ottenimento del permesso di soggiorno.
«È con questo documento che smettiamo di essere invisibili e possiamo lottare contro il ricatto della fame e dello sfruttamento. Mi sono legato subito al Movimento per lottare contro ogni forma di razzismo e contro la camorra».
Com’è organizzato?
«Il cuore di tutto è il Centro Sociale “Ex Canapificio”, la cosa bella è che viene gestito da migranti e italiani».
Il Centro Sociale nasce a Caserta nel 1995 come associazione di volontariato per difendere i diritti degli sfruttati e dei più vulnerabili, e contrastare la devastazione ambientale. Nel 2002 nasce il Movimento auto-organizzato dei Migranti e Rifugiati che è riuscito a ottenere la regolarizzazione di circa 20.000 persone compreso irrimpatriabili.
Il loro intervento si è col tempo esteso fino all’intera «Castel Volturno Area», facendo rete con diverse realtà laiche e religiose. Dal 2007 il Centro gestisce il progetto Sai (Sistema di accoglienza e integrazione previsto dal D.L. 130/2020) del Comune di Caserta, con un modello di accoglienza diffusa in piccoli appartamenti, per un numero di richiedenti asilo e rifugiati che da cinque è arrivato oggi a 200 persone accolte.
In questo la città ha beneficiato di un indotto sociale e culturale nonché economico senza precedenti (40 assunzioni, 23 appartamenti affittati, scuole guida, supermercati, sostegno ai piccoli produttori locali per la fornitura di ortofrutta…).
«Negli anni, con loro, ho fatto un percorso di vera inclusione», prosegue Mamadou. «Ho insegnato volontariamente in un laboratorio di francese e inglese per bambini, sono stato autista del Piedibus (un progetto di accompagnamento casa-scuola-casa a piedi, rivolto ai bambini delle scuole elementari della città di Caserta), sono uno dei volontari che si prende cura di spazi verdi che gestiamo insieme ai cittadini di quartieri popolari che abbiamo sottratto allo spaccio e all’abbandono. Inoltre, parlando molte lingue sono stato di aiuto ad altri immigrati nel fare un percorso di inserimento lavorativo e abitativo, permettendo loro di vivere la città come cittadini».
È passato dal chiedere aiuto all’offrirlo.
«Noi chiamiamo questo “inclusione bilaterale”: costruire con il contributo di ognuno una città multietnica dove realizzare una vera integrazione con il territorio che abitiamo».
Quindi, ricapitolando, oggi di che cosa si occupa?
«Lavoro come mediatore interculturale (parlo circa 13 lingue), vicecoordinatore di un progetto di inclusione del Centro, e sono il portavoce del Movimento dei Migranti e Rifugiati di Caserta».
E prima di conoscere il Movimento?
«A Cancello, in provincia di Caserta, ho fatto il coltivatore di tabacco dalle 6:00 alle 19:00 per una paga giornaliera di 20 euro. Per anni ho fatto il nomade tra le campagne del sud: d’estate in Puglia a raccogliere pomodori, d’inverno a Rosarno a raccogliere arance e mandarini: 3 euro per una cassa di pomodori, 1 euro per le arance».
Si è costruito una famiglia?
«Sì, ho due figli, una bella casa e un lavoro precario ma dignitoso».
E la sua seconda famiglia?
«Col Movimento continuiamo a lottare insieme a tante associazioni e reti nazionali, come il “Forum per cambiare l’ordine delle Cose” e “EuropAsilo”. Scendiamo in piazza da 19 anni con costanza, unità e determinazione».
I vostri nemici?
«L’intolleranza e l’odio verso chi scappa da guerra o povertà, sentimenti molto diffusi negli ultimi anni, complice una classe politica che soffia sul fuoco».
Che cosa rivendicate?
«Il diritto a regolarizzarci, a uscire dall’invisibilità che ci conduce dritti nelle mani della camorra e dello sfruttamento più buio».
Qual è il progetto attuale più importante?
«Si chiama “Paradosso all’italiana”. A ottobre abbiamo festeggiato le modifiche dei Decreti Sicurezza: i richiedenti asilo possono ora restare nei progetti di accoglienza Sai e tornare a fare il percorso di inclusione della buona accoglienza che i Decreti stavano smantellando».
Non la sento soddisfatto, però.
«Abbiamo di recente concluso un monitoraggio scoprendo che questa legge non viene rispettata. Le questure e le Commissioni territoriali per il riconoscimento del diritto di asilo non applicano le modifiche dei Decreti Sicurezza, cioè non rilasciano il permesso di soggiorno per motivi speciali. Sono migliaia gli immigrati che restano in un limbo pericoloso, smarriti e sfruttati, perciò dovremo ancora combattere».
La storia di Mamadou è una storia di riscatto: le sue parole raccontano un percorso che ha attraversato dolore, solitudine e fatica, ma che oggi profuma di bellezza, tra progetti speranzosi e ideali condivisi. La presenza di una forte rete civica per l’accoglienza ha permesso di rilanciare attività cittadine preziose alle quali partecipano circa 350 persone ogni settimana, tra cittadini e attivisti di ogni età, genere e provenienza, finanziate attraverso bandi pubblici e privati, Fondazioni ed Enti, campagne di donazioni dal basso e 5×1000.
Dall’inizio della pandemia il Centro Sociale è stato anche tra i promotori delle reti «Caserta Solidale» e «Castel Volturno Solidale», con le quali sono stati assistiti migliaia di cittadini nella consegna a domicilio di farmaci, alimenti e bombole di ossigeno, così come nella prenotazione della vaccinazione, attivando anche una linea di ascolto e supporto psicologico.
Come spesso accade alle favole, però, arriva un momento in cui qualcosa si mette di traverso e i sorrisi si spengono. Per vent’anni la sede del Centro è stata l’ex canapificio di Caserta (da qui il nome), di proprietà della Regione, ovvero un ampio capannone di 2.000 metri quadri. Nel marzo del 2019, un sequestro per motivi di sicurezza, dovuti a decenni di mancata manutenzione strutturale, ha chiuso le porte dello storico spazio, lasciando l’associazione senza sede in una città che, negli ultimi anni, ha visto la progressiva chiusura (per sgomberi, sequestri o crolli) di tutti i luoghi socioculturali pubblici.
Mamadou, perché il Centro Sociale deve continuare a vivere? Che cosa ha rappresentato per lei e migliaia di persone in cerca di un futuro?
«Il Centro è la casa degli invisibili, degli ultimi, dei dimenticati. Rappresenta le storie di chi ha potuto ricostruirsi una vita, è un punto di riferimento. Io non ero nessuno, uno tra milioni, ma grazie ai compagni e alle compagne sono diventato di nuovo Mamadou, e come me tanti altri hanno ritrovato loro stessi nel confronto e nella condivisione di ideali e di speranza. Ecco perché abbiamo bisogno di una sede, per permettere ad altri dopo di me di ritrovarsi e insieme costruire un domani migliore»
Iacopo Melio per Vanity Fair