Violenze, abusi, sfollati: la comunità internazionale apra gli occhi sul Tigray

“Per quattro mesi non ho avuto notizie dei miei genitori. Le comunicazioni arrivano a singhiozzo, e le testimonianze sono atroci. Cosa fa la comunità internazionale?” A parlare è Y., che abbiamo raggiunto al telefono. Cittadino italiano, è nato in Italia da genitori etiopi, di etnia Tigrina. Insieme a lui molti altri giovani, preoccupati per ciò che da mesi sta scuotendo la regione del Tigray, dove si trovano i loro parenti. Proprio per evitare possibile ripercussioni chiedono di restare anonimi. “Ci arrivano notizie terribili, e non solo sono voci, ci sono filmati e fotografie”. Dal 4 novembre scorso, il Tigray, la regione più settentrionale dell’Etiopia, è sotto un violento attacco sferrato dallo stesso primo ministro etiope, Abiy Ahmed Ali, solo l’anno prima insignito del premio Nobel per la pace in conseguenza degli accordi diplomatici siglati con l’Eritrea. Il premier accusa il TPLF (Tigray People’s Liberation Front) di aver attaccato il comando militare settentrionale dell’ENDF (Ethiopian National Defense Force) nella città di Mekelle, in Tigray, e di averne tentato di saccheggiare le risorse. Altra causa scatenante sarebbe legata alle elezioni, vinte dal TPLF, tenutesi nella regione autonoma (una possibilità sancita dalla Costituzione) dopo l’annullamento di quelle nazionali, previste per settembre e spostate a data da destinarsi a causa della pandemia. “Ma negli USA le elezioni ci sono state, ad esempio, e inoltre in Etiopia la situazione è sotto controllo. E’ stato un evidente tentativo del premier di restare al governo” afferma Y., un altro cittadino italiano/tigrino. 

Le ragioni del conflitto in atto sono evidentemente molto più profonde, e si legano alle differenti visioni del paese portate avanti da Abiy Ahmed Ali da una parte e dal TPLF (che ha governato l’Etiopia per quasi vent’anni) dall’altra, oltre che all’eterogeneità culturale e linguistica che caratterizza l’Etiopia, Repubblica federale divisa in dieci Stati/regioni in cui convivono almeno ottanta popolazioni. Ma ciò che sta succedendo in Tigray non riguarda certo solo l’Etiopia né le sue questioni interne: il conflitto si inserisce in uno scenario africano e internazionale molto più ampio (per un necessario approfondimento si rimanda ad alcuni articoli, tra cui Ispi, NenaNews, Avvenire,  ). Concretamente, nella guerra sarebbero coinvolte truppe somale ed eritree, mentre è il Sudan il paese dove si stanno riversando le persone in fuga dalle violenze. Già, perché se le cause sono molteplici e gli interessi in gioco anche, a farne le spese sono, come sempre, i civili. Impossibilitati a comunicare con l’esterno a causa di un blackout di internet e delle linee telefoniche imposto dal premier Abiy Ahmed Ali, sono stati investiti da violenze atroci, stupri, omicidi di massa. Una catastrofe umanitaria, come l’ha definita l’Onu. Oltre 60mila le persone già fuggite, ora ammassate in campi profughi sudanesi. Le Nazioni Unite parlano del più grave esodo di rifugiati dall’Etiopia delle ultime due decadi. A gennaio sono state concesse piccole aperture a giornalisti e organizzazioni umanitarie, ma la situazione è ancora catastrofica.
Solo pochi giorni fa, il 4 marzo, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si è espresso su quanto sta accadendo: la responsabile Michelle Bachelet ha denunciato possibili crimini di guerra e contro l’umanità. Ma per ora l’unico intervento concreto, anche se indiretto, è stato quello dell’Unione Europea, che ha sospeso il versamento di 90 milioni di euro di aiuti all’Etiopia. Diverse le prese di posizione istituzionale, a cui però non è seguito nulla.
“La comunità internazionale deve fare qualcosa, e l’Italia in primis” affermano T. e gli altri giovani in collegamento con noi, ricordando tanto il passato coloniale che lega il nostro paese all’Etiopia, quanto i forti interessi commerciali dell’Italia nel paese e le relazioni diplomatiche tra i due stati. Inoltre evidenziano un altro livello della questione, ossia quello legato alle migrazioni: questo conflitto rischia di creare una destabilizzazione del Corno d’Africa, che causerebbe la fuga di migliaia di persone. “E’ urgente un intervento per scongiurare altre violenze e per permettere alle persone di tornare, in sicurezza, alle proprie vite”. 

Serena Chiodo

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