Dissero che era colpa mia. Storia di un’operatrice sociale

Sono un’operatrice sociale.
Da 11 anni sono operatrice sociale.
È questa la dicitura che utilizzo quando compilo i moduli di iscrizione. Sono queste due le parole che utilizzo quando mi chiedono che lavoro svolgo.
Quando nel 1997 mi iscrissi a Biologia mia zia interdetta mi chiese che professione fosse e le risposi, da burlona, che avrei fatto la scienziata. Ecco, quando dico che sono operatrice sociale lo sguardo dei miei interlocutori ha la stessa intensità dello sguardo di zia nel 1997: vuoto.

Gli operatori e le operatrici sociali sono letteralmente l’ultima ruota del carro.
Gli operatori e le operatrici si giocano le loro competenze al confine.
Negli interstizi dove si trova tutto ciò che la società, almeno per un po’, rifiuta.
Negli spazi dove le persone recuperano (a volte) le conoscenze, le forze e la voglia di superare il confine.
A volte non è possibile e allora gli interstizi diventano luoghi stabili con guardiani e guardiane, i famosi operatori e operatrici.
Ho lavorato con donne senza fissa dimora, con rom e sinti, con richiedenti protezione internazionale e con detenuti ed ex-detenuti.
Non coordinatrice o responsabile, né tantomeno direttrice.
Come operatrice.

Non ci si spacca la schiena. Non nelle strutture dove ho lavorato io almeno. Ci si spacca lo stomaco. Ti si squarcia il cuore. Di che cosa si occupano queste famose figure? E, soprattutto, perché quello che fanno e quello che pensano non interessa a nessuno?
Fanno tutto: accompagnamento, preparazione, sostegno, gestiscono i contatti con il mondo esterno; ascoltano, preparano pasti, puliscono per terra, preparano piani risparmi, orientano, cercano lavoro e alloggio, mangiano con le persone per/con cui lavorano; ci giocano a carte. Spesso molti non lo considerano nemmeno un lavoro.
“E dai che hai fatto? Hai parlato con una persona per due ore e hai pure ascoltato della musica, sarà mica un lavoro!”
Non ci si spacca la schiena. Non nelle strutture dove ho lavorato io almeno.
Ci si spacca lo stomaco.
Ti si squarcia il cuore.
Perdi la voce a furia di spiegare alle persone come funzionano le cose. Ti fai odiare da tutti.

Ti odiano le persone con le quali lavori perché stai sulla torre di guardia a ricordare ogni momento i limiti, ogni giorno con la sola tua presenza rammenti loro la condizione di confinati in cui si trovano; a volte inabili.
Ti odiano i tuoi responsabili se per caso esci dal ruolo di guardia a te assegnato.
Ti odia la tua famiglia (quando ce l’hai) perché continui a pensare a quei luoghi anche dopo aver varcato il confine.
Ti odia la società perché ti porti dietro gli odori e le voci del confine. Questo pensavo fino a giovedì scorso.
Giovedì scorso un settimanale ha pubblicato una lunga inchiesta che descriveva in maniera circostanziato come il direttore di una grande Onlus eserciti la sua autorità in maniera del tutto arbitraria.
Evviva, mi sono detta, evviva, avevo sbagliato, qualcuno ascolta il rumore delle ruote dei nostri carri ricolmi di paure e spesso solitudine. Evviva mi sono detta, esistiamo.
Non siamo Caronte.
Invece no.

Era terribile non sentirsi ascoltata da chi avrebbe dovuto proteggerti
12 pagine di inchiesta non hanno squarciato la nebbia che ci avvolge. 12 pagine di inchiesta non hanno fatto venire a nessuno il dubbio che forse qualcuna di quelle cose è vera.
Che forse esistiamo e che forse, a volte, anche noi veniamo maltrattati. Sono operatrice sociale e 4 anni fa ho subito mobbing da quella stessa Onlus.
Non sono l’unica e non sono nemmeno quella alla quale è andata peggio.
Ricordo come fosse ieri il pomeriggio di dicembre nel quale quello stesso direttore disse a 7 persone che anche se sapeva che lavoravano bene e che amavano il loro lavoro, lui le voleva mandare via/lui quel gruppo lo voleva spezzare.
E così fu, ce ne andammo in 6 su 7.

Ricordo molto bene quando la mia coordinatrice mi disse che mi avrebbe fatto una lettera di richiamo per “negatività nei confronti del sistema”.
Me lo disse dopo avermi messa in prova per tre settimane. Avevo un contratto a tempo indeterminato da due anni quando mi disse che ero in prova e che lei mi avrebbe osservato.
La sua responsabile (dunque, la responsabile della mia coordinatrice, perché si sa che le Onlus mica sono organizzate come una fabbrica di bulloni) mi disse che non era il lavoro a stressarmi.
La colpa era mia.
Ero troppo emotiva.
Quello stesso direttore venne a spiegarci che c’è una gerarchia, che andava rispettata e che non avremmo dovuto osare non rispettarla.

Come è mai possibile che a nessuno là fuori sia venuto in mente di chiedersi cosa stia succedendo veramente?
Ripeto, a me non è andata male. Io me ne sono andata via in tempo.
Io ho scelto, grazie alla meravigliosa rete che mi circonda, la salute. Letti così questi episodi non sembrano terribili.
Era terribile la paura di sbagliare, che si aggiungeva alla sanissima paura di sbagliare che si ha quando si fa questo lavoro. Di sbagliare nel fornire informazioni, di sbagliare modi, luoghi e parole.

Ed era terribile non sentirsi ascoltata da chi avrebbe dovuto proteggerti. Ma ripeto, a me non è andata malissimo (certo, benissimo proprio no, tremo mentre ne scrivo anni dopo…).
Torniamo a giovedì scorso allora.

Tutte le parole scritte fino ad ora portano alla seguente domanda: Come è mai possibile che a nessuno là fuori sia venuto in mente di chiedersi cosa stia succedendo veramente?
Trenta persone circa parlano con un giornale e raccontano cosa hanno subito.

Trenta persone adulte dicono che hanno troppa paura di metterci il nome per le ritorsioni che potrebbero subire.
90 persone si sono presentate in un’assemblea sindacale.

Come è mai possibile che non vi interessi nulla di noi? È perché vi ricordiamo quegli interstizi bui.

Ermira Kola

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